IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DI VEGLIE (Sanctae Mariae de Vigiliis)
di Antonio De Benedittis
Una dettagliata ricostruzione storica del santuario di “Sanctae Mariae de Vigiliis” a cura dello studioso di Storia Patria Antonio De Benedittis
VEGLIE – Una nuova ed interessante ricerca negli archivi della nostra Storia Locale a cura dello studioso Antonio De Benedittis mette in luce alcune notizie, a molti sconosciute, del Santuario di SANTA MARIA DI VEGLIE (Sanctae Mariae de Vigiliis) che è stato il primo nucleo dell’attuale Chiesa del Convento dei francescani minori conventuali.
Di seguito la ricerca di Antonio De Benedittis.
IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DI VEGLIE
(Sanctae Mariae de Vigiliis)
di Antonio De Benedittis
Anticamente a nord di Veglie all’interno di quella vasta area che attualmente comprende il convento, la cripta, la chiesa e l’antico cimitero, c’era una piccola chiesa dedicata a Santa Maria di Veglie; nel suo interno c’era un solo altare con l’affresco di una Madonna con Bambino, rinvenuto ed estratto da dentro una grotta che si trovava nelle vicinanze e che il popolo ed il clero di Veglie avevano assunto a protettrice del paese attribuendole il nome di Sanctae Mariae de Vigiliis.
A questa Immagine, ritenuta miracolosa, si rivolgeva continuamente il popolo di Veglie e quello dei paesi limitrofi per i propri bisogni spirituali e materiali; in brevissimo tempo la chiesa diventa luogo di pellegrinaggio tanto che per alloggiare la moltitudine di fedeli si era reso necessaria la costruzione di alcuni locali, accanto a quello che ormai era diventato un vero e proprio santuario mariano[1], Il leggendario devozionale cinque-seicentesco faceva risalire la maggior parte dei santuari mariani al ritrovamento di una effige della Vergine.
Di questo ritrovamento se ne parla diffusamente nella “Platea”[2] del convento in occasione di un suo rifacimento (1735):
“Per tradizione antichissima si ha che circa un miglio distante della Terra di Veglie vi era un folto bosco[3] dentro del quale trovassi una figura della madre santissima dentro di una grotta[4], ritratta in fresco a mezzo busto col bambino alla destra, e con faccia grande all’antica, che per la sua bellezza recavasi continuamente il popolo non meno quello della Terra di Veglie, che dì altri luoghi della provincia ad adorarla. E per quello s’osserva vedesi esser simile a molte altre figure di essa santissima madre ritrovate nelle grotte in diversi luoghi di questa provincia, che servivano alli primi e fervorosi cristiani della medesima a fine di porgere adorazioni al sommo Iddio, che poi per timore dell’idolatri abbandonate le sante figure nelle grotte si erano.
E ritrovata adunque detta grotta coll’accennata figura, dall’Università di Veglie procedesi detto bosco spianare e presa la detta figura, si fabbricò una cappella, seu chiesa, accoste detta grotta e fu assegnata per beneficio.
E come che dispensava grazie abbondantemente stante il concorso dei fedeli vi si fece un giardinello con casa, cortile e casamenti, che servivano per alloggiarsi li devoti quali andavano per impedrare grazie e benefici […]”.
Fino a tutto il 1600 la Madonna è conosciuta con il nome di Santa Maria di Veglie, poi, all’inizio del 1700, le viene attribuito l’appellativo di “Favana” perché – secondo una leggenda creata molti anni dopo il suo ritrovamento – faceva guarire le persone e gli animali dal male della fava[5].
La circostanza che la chiesa sia stata costruita in località “li Favali” ci consente di opinare che nell’attribuzione di questo nuovo appellativo il favismo non c’entri per niente ma sicuramente è da ritenere come un riconoscimento alla facoltosa e religiosissima famiglia vegliese dei Favale per il ruolo filantropico svolto nella costruzione del convento; d’altronde se fosse sostenibile la versione tramandataci dal compilatore[6] della Platea:
“…viene chiamata la Madonna della Favana, che bada solo a fedeli che faccino celebrare, o abbino intenzione di far celebrare una messa, immediatamente si vede libero da detto male della fava, l’uomo o l’animale quadrupedo paziente…”,
non ci sarebbe stato bisogno, a mio avviso, attendere più di un secolo e mezzo dal suo ritrovamento per ricordarsi che la Madonna intercedeva sui soggetti affetti dal male della fava e, in conseguenza, modificargli il nome.
Si è quindi dell’avviso che la favola del favismo sia stata inventata dai frati per incrementare il loro già cospicuo patrimonio che era strettamente connesso all’attività creditizia esercitata, in considerazione della loro appartenenza all’ordine dei frati possidenti e non già a quello dei frati mendicanti; in questo senso è da interpretare il celato invito contenuto nella Platea che il cronista rivolge ai fedeli quando asserisce che la Madonna nel fare i miracoli: “bada solo a fedeli che faccino celebrare, o abbino intenzione di far celebrare una messa”, quindi l’attività miracolosa non era del tutto disinteressata e generalizzata ma aveva un costo!.
Per conoscere con precisione quando è stata costruita la chiesetta, il cui periodo ovviamente coincide con il ritrovamento dell’affresco ritenuto miracoloso, la “Platea” del 1735 non fornisce alcun utile elemento al riguardo limitandosi a riferire: “Per tradizione antichissima”, null’altro.
Molto più interessante per questa finalità è l’inventario dei beni dello Stato di Galatone compilato nel 1567 dal notaio Filippello di Lecce[7], in seguito alla morte del feudatario Stefano Squarciafico figlio di quell’Oberto (o Umberto) Squarciafico che, nel 1556, aveva acquistato dalla Regia Corte la Terra di Veglie che era pervenuta nella disponibilità del re in seguito alla morte senza eredi della precedente feudataria la duchessa Maria Castriota.
Motivo della compilazione dell’inventario dell’intero Stato di Galatone, (che comprendeva gli odierni comuni di Galatone, Copertino, Leverano, Veglie, Lequile e San Cassiano), era quello di consentire al minore Giulio Cesare Squarciafico di venire in possesso dei beni appartenuti al padre Stefano, deceduto poco prima.
L’inventario, per la parte che interessa Veglie, viene formato dentro il seggio, luogo solito delle riunioni dell’università, il 15 novembre 1567 alla presenza dei rappresentanti del feudatario e di quelli della Terra di Veglie che erano il capitano Domenico Antonio Vitigliano, il sindaco Arfeli Simone e l’erario Giulio Piccinno.
La lettura dell’inventario, per quel che riguarda la presente ricerca, diventa interessante quando riferisce che il defunto Stefano Squarciafico possedeva, tra l’altro:
[.] item lo jus patronato de la ecclesia ditta de Sancta Maria de Veglie fora de la preditta terra mezo miglio con sui redditi et intrate dentro al territorio de Veglie iusta i suoi confini [.].
Nel diritto canonico, lo jus padronato (che in genere era associato allo jus presentandi) era il privilegio che spettava ai fondatori di chiese, cappelle o benefici, o ai loro aventi causa, di presentare all’autorità ecclesiastica un candidato a un beneficio ecclesiastico vacante che non necessariamente doveva appartenere alla stessa famiglia del titolare del beneficio. Interessante notare che lo jus padronato di cui è fatto cenno nell’inventario non si riferisce ad un altare della chiesa (anche perché ce n’era uno solo) ma a tutta la chiesa:
“…jus padronato de la ecclesia ditta de Sancta Maria de Veglie…”,
si propende quindi nel dire che la costruzione del tempietto da parte della famiglia Squarciafico, sia avvenuta in seguito al ritrovamento dell’Immagine della Madonna con Bambino, negli anni immediatamente successivi all’acquisto della Terra di Veglie (1556).
Alla morte di Giulio Cesare (novembre1582), tutti i suoi beni vengono ereditati dalla zia Livia Squarciafico e alla morte di questa dal figlio Cosmo Pinelli, deceduti entrambi nel 1602: nei relevi (atti di successione) presentati dagli eredi alla Regia Camera per ottenere l’investitura feudale non c’è più traccia dello “…jus padronato de la ecclesia ditta de Sancta Maria de Veglie…”, descritto nell’inventario del notaio Filippello. L’ultima volta che gli Squarciafico si avvalgono del loro jus presentandi è il 1565 quando il marchese Stefano presenta all’arcivescovo di Brindisi mons. Bovio, il sac. Salvatore Favale di Veglie quale persona idonea e capace a svolgere le funzioni di cappellano della chiesa; ottenuta l’investitura, con tutti gli oneri e onori del caso, il Favale esercita le funzioni fino al 1579 quando rinuncia il tutto nelle mani dell’arcivescovo mons. Bernardino de Figueroa (succeduto a mons. Bovio) per consentire la costruzione del convento dei frati francescani nello stesso luogo dove c’era la chiesa.
Altre interessanti notizie per una possibile datazione della chiesa-santuario di Santa Maria di Veglie sono contenute nel resoconto di una visita pastorale compiuta dall’arcivescovo di Brindisi mons. Jo: Carlo Bovio nel 1565 nella Terra di Veglie.[8]
L’alto prelato dopo aver visitato le chiese intra moenia di San Giovanni Battista e di Santo Stefano, prosegue visitando le chiese extra moenia dei SS. Pietro e Paolo, di San Leonardo, di San Salvatore, di San Vito e di Santa Maria di Veglie.
Il 29 luglio 1565 mons. Bovio, unitamente ai convisitatori, si reca a visitare la chiesa della Madonna di Santa Maria di Veglie.
Cappellano beneficiato della chiesetta era l’abate Giovanni Antonio Valentino di Copertino, il quale, non potendosi, o non volendosi presentare, delega a rappresentarlo il sac. D. Paolo Greco pure di Copertino.
Dopo aver presa visione delle lettere di nomina e verificata la loro validità, l’arcivescovo e i convisitatori si portano in una casa adiacente alla chiesa per stilare l’inventario dei beni mobili.
Vengono rivenute poche suppellettili appena sufficienti per poter celebrare la messa: un calice di argento con patena, un panno di velluto per l’altare e una vota argentea del peso di una libra.
Procede poi a redigere l’inventario dei beni stabili la maggior parte dei quali serviva per alloggiare i fedeli, ed erano:
- Una casa a pian terreno di fronte alla chiesa.
- Una casa grande di cui metà impalatiata, attaccata alla casa suddetta.
- Una stalla scoperta attaccata alle dette case.
- Una cisterna nell’atrio di detta chiesa.
- Un giardino circondato da pareti attaccato alle case suddette.
- Un altro giardino attaccato alla chiesa sito dalla parte di austro e occidente della stessa chiesa
- Una curte circondata da pareti attaccata alle case predette dalla parte di borea.
- Dalla curte predetta un tomolo e mezzo circa di terre.
La chiesa inoltre possedeva: due tomoli e mezzo di terre nella via delli Casalini, due tomoli e mezzo di terre nel feudo di Vucitina, nove alberi di olive alla chiusura delli Greci, sette alberi d’olive alli Stoci e cinque alberi d’olive nel luogo detto Giovanni Greco.
Questi beni erano nella piena disponibilità dell’arcivescovo per i quali il cappellano nominato era tenuto a celebrare alcune messe nella chiesa di Santa Maria di Veglie in conformità del legato per cui furono donati.
Successivamente vengono inventariati diversi altri beni (canoni, case, terreni, ecc.) frutto di donazioni e lasciti di devoti e miracolati; al termine della rilevazione l’arcivescovo fa rilevare che esistono altri beni di pertinenza della chiesa che non sono stati inventariati per negligenza del cappellano; dispone quindi che sia fatto mandato penale contro il medesimo perché provveda con molta diligenza a recuperare i beni e i diritti della predetta chiesa.
Completata la parte amministrativa il prelato si reca a fare visita alla chiesa ma si accorge che la porta è chiusa e il cappellano è assente; dai presenti gli viene riferito che nella chiesa non si celebra più la messa con grande scandalo del popolo, inoltre la stessa chiesa era priva della campana perché si era rotta e il cappellano non si era prodigato per farla riparare; l’arcivescovo assicura loro che avrebbe subito provveduto.
Infatti lo stesso giorno nomina quale economo e vicario della chiesa di S. Maria de Vigilis, D. Paolo Verrienti[9], sacerdote delle Terra di Veglie, fino alla nomina del nuovo cappellano; al Verrienti, presente e accettante, viene fatto obbligo di risiedere nella chiesa e celebrare i divini offici; allo stesso viene concesso l’utile di tutti i beni della chiesa nonché il diritto di trattenere per se le elemosine e gli oboli dei fedeli.
Tutte queste formalità avvengono alla presenza di D. Paolo Greco di Copertino il quale accetta quanto ordinato dall’arcivescovo mons. Bovio in nome e per conto dell’abate Valentino assente.
Ultimata la visita nella Terra di Veglie, l’arcivescovo prosegue per Leverano (comune della stessa Diocesi) per poi fare ritorno a Brindisi; dopo pochi giorni, appena ricevuta la “presentazione” da parte del titolare del padronato, nomina cappellano della chiesa di Santa Maria di Veglie il sacerdote don Salvatore Favale.
Il Favale resterà in funzione fino al 16 maggio 1579 giorno in cui rinuncia nelle mani dell’arcivescovo D. Bernardino de Figueroa, alla chiesa ed a tutti i beni appartenenti alla stessa; lo stesso giorno l’arcivescovo ne fa cessione al sindaco e università di Veglie per erigervi il convento dell’ordine dei francescani minori conventuali (OFM-Conv.).
Da questo momento in poi le vicende della chiesetta seguono quella del convento; l’affresco della Madonna di Santa Maria di Veglie viene collocato in un primo momento in una nuova chiesa appositamente costruita incorporata al convento di cui oggi rimane solo la traccia dell’originario ingresso che, sebbene ridimensionato alla misura di una normale porta, mostra tuttora integra la cornice ad arco sul prospetto esterno nonché alcune tracce indecifrabili di antico affresco sullo stesso prospetto.
Poi, nel 1651, ultimata la costruzione della nuova chiesa, l’affresco della Madonna di Santa Maria di Veglie viene definitivamente collocato in un altare appositamente costruito (secondo altare a sinistra per chi entra in chiesa) dove è rimasto fino a quando, nell’agosto 1981, i moderni barbari non lo hanno saccheggiato facendogli fare la stessa fine che avevano fatto tutti gli altri altari della stessa chiesa, diretta conseguenza del continuo abbandono dovuto alle due soppressioni subite e all’incuria degli uomini.
Unica testimonianza della presenza in quell’altare della Madonna “Regina di Veglie” è il cartiglio lapideo, che non è stato possibile rubare, sul quale è scritto: QUAM LAUDANT MATUTINA ASTRA VELIAS TUERE REGINA, cioè: “O Regina, che lodano le stelle del mattino, proteggi Veglie”[10].
Invocazione sempre attuale.
Antonio De Benedittis
NOTE:
[1] P.GABRIELE M. GUASTAMACCHIA. “Francescani di Puglia”. I frati minori conventuali 1209-1962. Bari-Roma 1963. L’A. nel descrivere il convento di Veglie riferisce che fu fondato presso il Santuario di S. Maria della Favana, cripta bizantina, protettrice del luogo.
[2] BIBLIOTECA ARCIVESCOVILE “Annibale De Leo”, Brindisi. Platea del Venerabile Convento di Veglie sotto il Titolo della Madonna della Favana ove sono descritti i Legati, li Beni stabili, pesi e censi redimibili. Riformata nel 1735. Cfr. A.DE BENEDITTIS. “La Platea del venerabile convento di Santa Maria di Veglie”. Il Parametro Editore. Grafema editore. Taviano 2005.
[3] [3] Il “folto bosco” cui fa riferimento il documento non è altro che l’antica foresta di Oria il cui confine attraversava Veglie da porta a porta. Sui confini della foresta oritana scrive il Travaglini: “…per la stessa strada raggiungeva il centro di Guagnano, passando alle spalle della Chiesa Madre, poi Salice passando a levante del Convento dei Padri Riformati e, per la vecchia via, andava a Veglie che attraversava dalle porte di tramontana e di scirocco. Da qui seguiva la vecchia strada per Leverano che attraversava passando a ponente del convento dei Padri Minori Osservanti o Antoniani e proseguiva per la via di Nardò…” Cfr. E.TRAVAGLINI: “I limiti della Foresta Oritana in documenti e carte dal 1432 al 1809”, in Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione di Oria – Oria 1977, p.48.
[4] Trattasi della cripta antistante al convento la cui datazione è incerta. “[.] La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che la cripta è stata costruita intorno al sec. XV, quindi molto più tardi rispetto al tradizionale fenomeno rupestre salentino: la presenza di iscrizioni bilingue (greco e latino), la mancanza di intonaci palinsesti e la datazione degli affreschi costituiscono le prove più significative al riguardo [.]”. Cfr. Veglie – Cripta della Favana in Guida alle Cripte bizantine del Salento di Cesare Daquino in “lu Lampiune”, quadrimestrale di cultura salentina, anno XVII, n.1, 2001.pp-37-39.
[5] Il male della fava, ossia il favismo, è una condizione morbosa tossico-allergica, molto diffusa anticamente nelle nostre contrade, provocata dall’inalazione del polline o dall’ingestione di fave fresche.
[6] Si trattava del plateario Domenico Simone di Lecce, funzionario della Regia Udienza.
[7] BIBLIOTECA PROVINCIALE LECCE. Protocollo del notaio Giovanni Giacomo Filippello. Inventario dello Stato di Galatone. 1567. Manoscritto 40-3°, c.361.
[8] BIBLIOTECA ARCIVESCOVILE “Annibale De Leo”, Brindisi. Acta Sanctae visitationis habita in Metropolitanae Ecclesia Brundusina et Uritana ab Archiepiscopo Io.Carolo Bovio. Ann. Chr. MDLXV. Tomo 2°, cc.327 e ss.
[9] L’arcivescovo Bovio avvalendosi delle sue prerogative destituisce da cappellano l’abate Giovanni Antonio Valentino di Copertino per ripetute negligenze; nello stesso tempo, per assicurare provvisoriamente la continuità delle funzioni nella chiesa, nomina il sac. Paolo Verrienti di Veglie quale economo e vicario e questo perché l’arcivescovo non poteva nominare direttamente il cappellano perché la nomina doveva essere preceduta dalla “presentazione” da parte del titolare del padronato; nei tre mesi successiva alla vacanza (termine stabilito dalle disposizioni ecclesiastiche), viene presentato e nominato cappellano della chiesa di Santa Maria di Veglie il sac. Salvatore Favale.
[10] I. Caldararo. Le iscrizioni latine e Greche a Veglie. (Presentazione M. De Marco). Edil Santoro, Galatina. 2006.
24 settembre 2018